giovedì 25 ottobre 2012

Philip k. Dick - Scorrete lacrime, disse il poliziotto



"Scorrete lacrime disse il poliziotto" è un tipico romanzo alla Philip K. Dick.
Un'opera intrisa di quella fantascienza che solo lui sapeva scrivere.
Al suo interno sono presenti molti temi cari allo scrittore come la tossicodipendenza, la psicosi, le società repressive ed altamente dispotiche, il sottile confine tra realtà e finzione.
L'ennesima recensione non avrebbe reso giustizia all'opera di un autore simile mentre questo estratto, da me particolarmente amato, decisamente si.
Buona lettura.


Quando Jason Taverner andò a riprendere i vestiti, trovò Ruth Rae seduta, nella penombra della camera da letto, sul letto disfatto, ancora caldo. Si era rivestita e fumava una delle sue solite sigarette di tabacco. La luce grigia della notte filtrava dalle finestre. La brace della sigaretta ardeva incandescente.
— Quella roba lì ti ucciderà — disse lui. — C’è un motivo se hanno deciso di razionarle a un pacchetto settimanale a testa.
— Vaffanculo — rispose Ruth Rae, e continuò a fumare.
— Però tu te le procuri al mercato nero — disse Jason. Una volta era andato con lei a comperarne un’intera stecca. Nonostante quello che guadagnava, il prezzo gli aveva fatto impressione. Ma lei non ci aveva nemmeno fatto caso. Era chiaro che se l’aspettava: conosceva il costo del vizio.
— Le trovo. — Lei spense la sigaretta appena iniziata in un posacenere di ceramica a forma di polmone.
— La stai sprecando.
— Amavi Monica Buff? — chiese Ruth.
— Ma certo.
— Non vedo come tu abbia potuto. Jason disse: — Ci sono diversi tipi d’amore.
— Come per il coniglio di Emily Fusselman. — Ruth alzò lo sguardo su Jason. — Una donna che conoscevo, sposata, con tre figli. Aveva due gattini, poi si è comperata uno di quei grossi conigli belgi, quei conigli grigi che saltellano come matti sulle zampe posteriori. Il primo mese, il coniglio aveva paura di uscire dalla gabbia. Era un maschio, almeno da quello che siamo riusciti a capire. Dopo un mese usciva dalla gabbia e zampettava in giro per il soggiorno. Dopo due mesi aveva imparato a salire le scale e a grattare alla porta della camera da letto di Emily per svegliarla. Ha cominciato a giocare con i gatti, e lì sono iniziati i guai, perché non era furbo come un gatto.
— I conigli hanno cervelli più piccoli — disse Jason.
Ruth Rae continuò: — Vero. Comunque, adorava i gatti e cercava di fare tutto quello che facevano loro. Ha persino imparato a usare quasi sempre la cassetta della sabbia. Strappandosi dei ciuffi di pelo dal petto ha costruito un nido sotto il divano, e voleva che i gattini ci andassero. Ma a quelli l’idea non piaceva. E poi è quasi stata la fine quando ha cercato di giocare a Prendimi con un pastore tedesco che una tizia aveva portato con sé. Il coniglio aveva imparato a giocare coi gatti, con Emily Fusselman e coi bambini. Si nascondeva dietro il divano, poi usciva a razzo, si metteva a correre velocissimo in cerchio, e tutti cercavano di prenderlo; ma di solito non ci riuscivano, e allora lui tornava a mettersi al sicuro dietro il divano, dove nessuno aveva il diritto di seguirlo. Però il cane non conosceva quelle regole, e quando il coniglio è scappato dietro il divano l’ha seguito e l’ha azzannato alle chiappe. Emily è riuscita a staccare il cane, ma il coniglio era conciato male. Si è ripreso, però da allora è rimasto terrorizzato dai cani. Scappava se ne vedeva uno anche solo dalla finestra. E teneva nascosta dietro le tende la parte del corpo morsicata dal cane perché non aveva più peli e si vergognava. Ma la cosa più toccante in lui era lo sforzo di superare i limiti della sua... come la chiameresti?... fisiologia? I suoi limiti di coniglio, tentando di diventare una forma più evoluta, come i gatti. Ha sempre desiderato stare e giocare con loro da pari a pari. E la morale è tutta qui. I gatti non volevano stare nel nido che lui aveva preparato per loro e il cane non conosceva le regole e l’ha azzannato. È vissuto parecchi anni. Ma chi avrebbe pensato che un coniglio potesse sviluppare un comportamento tanto complesso? E, se c’era qualcuno seduto sul divano e lui voleva che quello scendesse per potersi sdraiare, prima dava dei colpetti col muso, poi, se non succedeva niente, mordeva. Ma considera le aspirazioni di quel coniglio e poi il suo fallimento. Una piccola vita che compie degli sforzi. Senza avere la benché minima speranza. Ma il coniglio non lo sapeva. Oppure lo sapeva e ci tentava lo stesso. Però, secondo me, non capiva. Solo lo desiderava tantissimo. Era tutta la sua vita, perché amava i gatti.
— Credevo che non ti piacessero gli animali — disse Jason.
— Non più. Non dopo tante sconfitte e tante morti. Come il coniglio: alla fine, ovviamente, è morto, ed Emily Fusselman ha pianto per giorni. Per una settimana. Ho visto che dolore le aveva procurato quella morte e non ho più voluto degli animali.
— Ma smettere completamente di amare gli animali per poter...
— Le loro vite sono così brevi. Così dannatamente brevi. Okay, certa gente perde una creatura amata e tira dritto e sposta il proprio affetto su un’altra. Ma è doloroso, troppo doloroso.
— Allora perché l’amore è così bello? — Jason ci aveva riflettuto sopra, nel corso delle sue numerose relazioni, durante tutta la sua vita di adulto. In quel momento lo fece in modo particolarmente profondo. Riandando col pensiero da quello che gli era accaduto di recente al coniglio di Emily Fusselman. A quel momento di dolore. — Ami qualcuno, e se ne va. Un giorno torna a casa e comincia a mettere le sue cose in valigia e tu chiedi: "Cosa succede?", e ti senti rispondere: "Ho avuto un’offerta migliore da un’altra parte". E se ne va, esce per sempre dalla tua vita, dopo di che, fino alla morte, ti porterai dietro questo fardello, e non hai nessuno con cui condividerne il peso. E se trovi qualcun altro, succede di nuovo la stessa cosa. Oppure un giorno chiami quel qualcuno al telefono, gli dici: "Sono Jason", e ti senti dire: "Chi?", e allora capisci che è finita. L’altro non sa più chi diavolo sei. Quindi probabilmente non l’ha mai saputo. In realtà, non hai mai veramente "avuto" nessuno.
Ruth disse: — L’amore non è solo volere un’altra persona allo stesso modo in cui vuoi impossessarti di un oggetto che vedi in una vetrina. Quello è solo desiderio. Vuoi avere l’oggetto tutto per te, portarlo a casa e metterlo da qualche parte nel tuo appartamento. Una lampada, o altro... L’amore è... — Fece una pausa. Rifletté. — Per esempio, un padre che salva i figli dalla casa in fiamme. Li porta fuori e muore. Quando ami, smetti di vivere per te stesso. Vivi per un’altra persona.
— E questo è bene? — A lui non sembrava tanto.
— Supera l’istinto. L’istinto ci spinge a lottare per la sopravvivenza. Come quando i pol accerchiano i campus. La sopravvivenza di noi stessi a spese di altri. Ognuno di noi si apre la via con gli artigli. Posso farti un buon esempio: il mio ventunesimo marito, Frank. Siamo rimasti sposati sei mesi. In quel periodo lui ha smesso di amarmi ed è diventato terribilmente infelice. Io lo amavo ancora. Avrei voluto restare con lui, ma lui soffriva. Così l’ho lasciato andare. Capisci? È stato meglio per lui, e siccome io lo amavo, era quella l’unica cosa importante. Capisci?
— Ma perché è bene andare contro l’istinto di sopravvivenza? — chiese Jason.
— Tu credi che io non ti sappia rispondere, vero?
— Infatti.
— Perché alla fine l’istinto di sopravvivenza è perdente. In ogni creatura vivente: sia essa una talpa, un pipistrello, un essere umano o un rospo. Persino i rospi che fumano sigari e giocano a scacchi. Non riuscirai mai a fare quello che è nelle intenzioni dell’istinto di sopravvivenza, per cui tutti i tuoi tentativi falliranno, soccomberai alla morte, e sarà finita lì. Ma se ami, puoi svanire e osservare...
— Io non sono pronto a svanire — disse Jason.
— Puoi svanire e osservare con felicità, e con una fresca, armoniosa gioia di tipo alfa, la più alta forma di gioia, la vita di quelli che ami che continua.
— Ma muoiono anche loro.
— Vero. — Ruth Rae si mordicchiò il labbro.
— È meglio non amare, così non sperimenterai mai nessuna morte. Anche un animale - un cane o un gatto, come hai detto tu - puoi amarlo, e poi muore. Se la morte di un coniglio è dolorosa... — Jason ebbe, in quel momento, una specie di visione orrorifica: le ossa frantumate e i capelli di una ragazza che grondava sangue, prigioniera delle fauci di un nemico appena intravisto, più grande di...
— Ma puoi soffrire. — Ruth scrutò con ansia il viso di lui. — Jason! La sofferenza è l’emozione più forte che un uomo o un bambino o un animale possano provare. È una buona sensazione.
— E sapresti dirmi, per favore, in che modo? — rispose lui con voce roca.
— La sofferenza ti spinge a lasciare te stesso. Esci dal tuo piccolo e limitato guscio. E non puoi soffrire se prima non hai amato. La sofferenza è l’esito finale dell’amore, perché è amore perduto. Tu capisci, lo so. Però non vuoi pensarci. È il completamento del ciclo dell’amore: amare, perdere, soffrire, lasciare e lasciarsi, poi amare di nuovo. Jason, soffrire è la consapevolezza che dovrai essere solo, e al di là di questo non c’è nulla, perché essere solo è il destino ultimo, definitivo di ogni creatura vivente. Ecco cos’è la morte: la grande solitudine. Ricordo la prima volta che ho fumato erba da una pipa ad acqua, invece del solito spinello. Il fumo era fresco, e non mi sono resa conto di averne inalato troppo. All’improvviso, sono morta. Per un breve istante, ma che dev’essere durato diversi secondi. Il mondo, ogni sensazione, persino la consapevolezza del mio corpo, del fatto stesso di avere un corpo, sono svaniti. E non mi sono trovata isolata nel solito senso, perché quando sei sola nel solito senso continui a ricevere dati, anche magari soltanto dal tuo corpo. Ma anche l’oscurità è scomparsa. Tutto ha cessato di esistere. Silenzio. Nulla. Sola.
— Devono aver bagnato l’erba dentro una di quelle merde tossiche. Tanta gente si è fritta il cervello così, a quei tempi.
— Sì, sono stata fortunata a tornare in me. Un caso, un incidente. Avevo già fumato erba un’infinità di volte e non era mai successo. Per questo, dopo quel giorno, fumo solo tabacco. Comunque, non è stato come svenire. Non ho avuto la sensazione
di cadere perché non avevo nulla con cui cadere, non avevo un corpo... e non c’era un giù verso il quale cadere. Tutto, compresa me stessa, era semplicemente... — Ruth gesticolò. — Andato. Come l’ultimo goccio che esce da una bottiglia.
Poi, dopo un po’, hanno ricominciato a proiettare il film. La pellicola che chiamiamo realtà. — Fece una pausa, aspirò dalla sigaretta. — Non l’avevo mai raccontato a nessuno.
— Ti sei spaventata?
Lei annuì. — La coscienza della mancanza di coscienza, se mi segui. Quando moriremo non ce ne accorgeremo, perché morire è perdere tutto quanto. Così io non ho più paura di morire, per niente, dopo quel brutto viaggio con l’erba. Ma soffrire è morire ed essere vivi allo stesso tempo. L’esperienza più assoluta, più totale che si possa provare. La forza. A volte giurerei che non siamo stati creati per superare un ostacolo simile. È troppo. Il corpo arriva quasi a distruggersi, con tutti quei sussulti, quelle contorsioni. Ma io voglio provare dolore. Versare lacrime.
— Perché? — Jason non riusciva a capirlo; per lui era una cosa da evitare. Appena cominciava a provarla, se la dava a gambe.
Ruth disse: — La sofferenza ti unisce di nuovo a ciò che hai perso. È una fusione. Te ne vai anche tu con la cosa o la persona amata che scompare. In un certo senso, ti dividi da te stesso e l’accompagni, fai con lei una parte del viaggio. La segui sin dove ti è concesso spingerti. Ricordo che una volta avevo un cane che amavo. Avevo diciassette o diciott’anni. Ero quasi maggiorenne, per quel che rammento. Il cane si ammalò e lo portammo dal veterinario. Dissero che aveva ingerito del veleno per topi e che ormai i suoi visceri erano solo un sacco di sangue e che le ventiquattro ore successive avrebbero stabilito se sarebbe sopravvissuto o no. Io tornai a casa e aspettai, poi verso le undici di sera crollai. Il veterinario doveva telefonarmi al mattino, appena rientrato in clinica, per dirmi se Hank aveva superato la notte. Io mi alzai alle otto e mezzo e cercai di rimettere ordine nella mia testa, in attesa della telefonata.
Andai in bagno, volevo lavarmi i denti, e vidi Hank nell’angolo in fondo a sinistra. Con molta dignità e contegno, stava salendo lentamente una scala invisibile. Lo guardai salire in diagonale e poi, nell’angolo in alto a destra del bagno, scomparve, proseguendo su per la scala. Non si girò una sola volta. Capii che era morto. Poi il telefono squillò e il veterinario mi disse che Hank non ce l’aveva fatta. Ma io l’avevo visto salire. E, ovviamente, provai un dolore orribile, devastante, e patendo quella sofferenza mi persi e salii con lui quelle dannate scale.
Tutti e due rimasero in silenzio per un po’.
— Ma alla fine — proseguì Ruth, schiarendosi la gola — la sofferenza se ne va e tu torni in sintonia col mondo. Senza l’altro.
— E tu riesci ad accettarlo.
— Che scelta abbiamo? Piangi, continui a piangere, perché non torni mai del tutto indietro dal posto in cui sei andato con l’altro. Un frammento che si è staccato dal tuo cuore pulsante è ancora là. C’è una lesione. Una ferita che non guarisce mai. E se ti succede una volta e un’altra e un’altra ancora nella vita, col tempo se ne va una parte troppo grande del tuo cuore e non riesci più a soffrire. E allora tu stesso sei pronto a morire. Salirai la scala in diagonale e qualcun altro resterà indietro a soffrire per te.
— Non ci sono tagli nel mio cuore — disse Jason.
— Se te ne vai adesso — rispose Ruth, rauca, ma con una compostezza insolita in
lei —, è così che mi sentirò io.
— Resterò fino a domani — rispose lui.




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